Giorgia Salicandro e la geografia emotiva di chi ha scelto il Salento

I nuovi salentini è il titolo dell’ultimo libro della giornalista Giorgia Salicandro, edito da Tau per la collana Testimonianze e Esperienze delle Migrazioni, curata dalla Fondazione Migrantes.

Il testo raccoglie alcune delle più significative esperienze raccolte da Salicandro per Il Nuovo Quotidiano di Puglia, con l’aggiunta degli ultimi tre capitoli, inediti. Le esperienze raccontate raccolgono un arco temporale tra il 2016 e il 2019. Il lavoro trova più che degne firme di corredo: la presentazione di Giovanni De Robertis, direttore generale della Fondazione Migrantes, la prefazione di Leonardo Palmisano,scrittore e attivista, la postfazione della scrittrice Igiaba Scego.

Abbiamo parlato con l’autrice partendo da un concetto interessante che lei dichiara subito nella sua introduzione: «Io non ho mai voluto lasciare il Salento». Una dichiarazione di attaccamento e di amore che sta alla base della curiosità e della volontà d’indagare i perché dei “nuovi” salentini, cioè di tutte le persone che scelgono di vivere nell’estremo lembo di a Sudest d’Italia, tra integrazione e idee di futuro. Un dialogo dal quale potremmo uscire tutti più ricchi.

Giorgia Salicandro con la copertina del suo libro I nuovi salentini

Se dovessi descrivere un’istantanea del Salento riguardo il livello di multiculturalismo, quali concetti useresti? Quali credi che siano i punti di forza del territorio nell’aver “acquisito” questi nuovi cittadini? E quali le criticità?
«Non sono brava con i concetti, per questa “istantanea” vorrei partire piuttosto da tre luoghi a mio avviso rappresentativi. Il primo è contrada Spigolizzi a Salve, nel Capo di Leuca. Qui negli anni Settanta approdarono Norman Mommens e Patience Gray, artista fiammingo lui, scrittrice inglese lei, i quali fecero di una masseria abbandonata una casa d’arte e di cultura che aprì questo periferico lembo di terra a un circuito da tutta Europa. Un luogo esemplare dell’apporto dato al Salento dalla piccola ma significativa comunità di artisti e intellettuali che ha saputo riconoscere la poesia lenta del territorio prima degli stessi salentini, contribuendo a rilanciare l’immagine delle masserie e dei centri storici. Il secondo luogo è un campo di angurie nelle campagne di Nardò, con centinaia di lavoratori provenienti dall’Africa, giovani, giovanissimi e meno giovani, schiene spezzate e, spesso, un giaciglio sporco e inadeguato a ristorare la stanchezza. Questi lavoratori sostengono ogni giorno una parte non marginale della nostra economia, e tuttavia qui come altrove non hanno diritti né visibilità, vivono segregati ai margini della società e non sono messi nelle condizioni di poter arricchire il territorio con la loro esperienza culturale oltre che le loro braccia. L’ultima immagine allarga l’inquadratura a paesi e cittadine, si eleva su case, negozi, scuole come captata da un drone in volo: vediamo domestici, macellai, insegnanti madrelingua, ristoratori, la moltitudine dei nuovi salentini “di mezzo”. Il loro contributo è evidente, anche se spesso è proprio questa la categoria meno rappresentata, perché si tende a privilegiare ciò che “fa notizia”, il vip straniero di turno o i drammi più cupi».

Al di là del Salento del sole, del mare, del turismo e delle masserie, ci sono maree di lavoratori invisibili: cosa si può fare per accendere un faro sulle loro condizioni di vita?

«Ci sono diversi livelli di discorso. Uno è politico: da cittadini, pretendere leggi e pratiche che tutelino i lavoratori più vulnerabili, tenendo anche a mente che il misconoscimento dei diritti di ogni minoranza significa, alla lunga, un arretramento dei diritti di tutti. Con le misure per l’emersione dal lavoro nero e la regolarizzazione dei migranti contenute nel decreto Rilancio io trovo che non si sia fatto un grande passo avanti nei confronti dei lavoratori. È stata prorogata la scadenza del permesso di soggiorno di sei mesi: il tempo necessario per la raccolta. Sì certo è qualcosa, è decisamente meglio di niente, ma non credo affatto sia abbastanza. Più che la loro dignità, mi sembra che l’oggetto sia la nostra convenienza. Oltre alla politica, c’è poi una dimensione fondamentale che non dovremmo dimenticare, e lo dico senza retorica: è quella informale, delle relazioni umane, delle relazioni “di vicinato”. È successo con gli albanesi negli anni Novanta: quando abbiamo avuto voglia di chiedere a chi veniva dal mare il suo nome e cognome, di raccontarci la sua storia, si sono strette solide amicizie e rapporti virtuosi di crescita umana, sociale, anche economica».

Com’è stato conoscere il popolo di lavoratori notturni che anima la vita del Salento? E che cosa, invece, ti ha colpito di più in questo lavoro di conoscenza di un aspetto del tessuto sociale di questo territorio?

«I lavoratori della notte sono le “Giovanna D’Arco” del sistema. Pensiamo ai market notturni, pensiamo alle assistenti agli anziani, soprattutto donne, madri che hanno lasciato le proprie famiglie in patria, e che spesso dopo anni di lavoro sfiancante sviluppano la tipica forma di depressione chiamata appunto “sindrome Italia” o “sindrome della badante”. Una delle mie interlocutrici mi ha raccontato la sua vita quotidiana alle prese con questi nonnini salentini che i figli vedevano solo per le feste, e dei suoi due figli diventati adulti da soli. Alla fine della nostra intervista mi ha detto “spero tanto che da vecchia i miei ragazzi si prenderanno cura di me”, e il suo volto era carico di domande, di conti aperti con la vita. Parlando della notte, a volte si cade nell’errore di richiamare il degrado, la prostituzione in schiavitù, lo spaccio come prime e uniche immagini. Ma questi drammi sono del tutto parziali rispetto all’interezza del tessuto sociale e produttivo a cui ci riferiamo. I lavoratori della notte con cui sono entrata a contatto io sono persone comuni, spesso mamme e papà di famiglia, che lavorano sodo, e che io davvero ammiro molto. Un piccolo universo fatto anche di storie ed esperienze divertenti, di ballerini professionisti che illuminano le discoteche con i loro passi provenienti dal mondo, di gestori di chioschi che con i clienti scherzano in un dialetto filologicamente ineccepibile».

Trovi ci siano differenze nel livello di entusiasmo e appagamento dei “nuovi “ salentini più giovani rispetto ai “nuovi” che vengono qui in età avanzata? E in generale quale credi che sia, se c’è, un punto da mettere in risalto, se non è quello dell’età?

«In realtà, l’età anagrafica è quasi sempre collegata al luogo di provenienza, e questo a sua volta alle motivazioni del viaggio. I “nuovi” che arrivano qui in età matura di solito sono partiti dai Paesi del Nord Europa o del Nord America, sono artisti, designer, stilisti, imprenditori che possono permettersi di scegliere il proprio luogo di lavoro, e il Salento è per loro un’oasi di ispirazione. Oppure sono pensionati che qui trovano il loro “buen retiro”: facoltosi, benestanti, ma anche comuni ex professionisti che nelle loro metropoli sarebbero strozzati dagli affitti e qui godono di un costo della vita molto più basso. È questa la grande differenza con i giovani, che arrivano in cerca di lavoro e provengono molto spesso da Paesi economicamente più svantaggiati – a parte alcune categorie di professionisti, come gli esperti linguistici. Chiaramente, per gli “anziani” il Salento è un paradiso esotico, anche se non mancano intellettuali e attivisti che ne sottolineano le criticità, ne difendono il paesaggio con lo spirito partecipe dei “cittadini adottivi”. Per i giovani il quadro è più variegato ed è difficile sintetizzarne il punto di vista, che andrebbe rintracciato piuttosto nelle singole esperienze».

Che idea ti sei fatta dei fedeli musulmani presenti sul territorio? Credi ci siano punti di dialogo e cooperazione per migliorare la convivenza sociale?

«In questo momento nel Salento abbiamo la fortuna – tutti, musulmani e non – di avere come imam della comunità islamica di Lecce Saifeddine Maaroufi, medico, mediatore interculturale, un uomo colto e illuminato che ha dato un grande impulso al dialogo e alla convivenza pacifica tra le persone. È sua, ad esempio, l’idea della prima Giornata del dialogo interreligioso, a cui hanno aderito anche i rappresentanti delle altre religioni. Ma quest’opera di integrazione è rivolta anche agli stessi fedeli dell’Islam. Nella Moschea di via Tempesta, per fare un esempio, la funzione del venerdì è sempre condotta in italiano – a parte la recitazione dei passi sacri – la “lingua franca” dei fedeli che arrivano dal Senegal così come dal Pakistan, dal Nord Africa o dai Balcani. Una lingua “trasparente” per tutti, italiani compresi. Io stessa, nel condurre le mie ricerche per questo libro, non ho mai trovato una porta chiusa, e quando sono entrata nella Moschea sono stata accolta con garbo dalle signore che pregavano nella saletta riservata alle donne. Vedendomi un po’ impacciata mi hanno anche suggerito, affettuosamente, i gesti da compiere durante la funzione. Tuttavia credo che un clima di serenità, anche religiosa, non dipenda solo da ciò che accade in una moschea, quanto dal grado di benessere diffuso in una comunità, e dalla percezione di avere una possibilità. Ecco, penso che in generale nel Salento questo clima ci sia, vuoi perché i numeri di chi si stabilisce qui non sono quelli difficili di Roma o Milano, vuoi perché i salentini sono persone accoglienti e calde e non sono mai state ottusamente chiuse agli altri».

Facebook Comments Box