L’Iran strumentalizza il coronavirus, ma il suo isolamento non aiuta

Il ministro della Salute iraniano ha annunciato ieri di aver contratto il coronavirus. Questo può essere un fatto simbolico dell’atteggiamento in parte inconsapevole e in parte colpevolmente ambiguo dell’Iran riguardo alla diffusione della malattia. Un paese che non ha saputo proteggere i propri cittadini durante un evento che poteva essere controllato come i funerali di stato del capo dei pasdaran, Qassem Suleimani, permettendo il dilagare del panico e della violenza che hanno portato alla morte di oltre 50 persone e al ferimento di più di 200 cittadini, come può comportarsi di fronte a qualcosa che neanche può gestire?

Mentendo. Il presidente Hassan Rohani ha dichiarato il 25 febbraio che la diffusione del CoVid-19 sia tutto un “complotto” dei nemici dell’Iran per seminare il panico, che questo panico sia stato usato per non far andare la gente a votare e che la vita deve proseguire normalmente perché l’emergenza rientrerà (!) il 29 febbraio.

Certo, a tutto questo bisognerebbe aggiungere che una gestione intelligente dei focolai potrebbe essere agevolata da una deroga specifica alle sanzioni, ma chissà se questo argomento tornerà all’ordine del giorno.

Il giornalista Pierre Haski, In un articolo per France Inter tradotto da Andrea Sparacino per Internazionale,  fa notare come “il 25 febbraio le cifre ufficiali parlavano di 16 morti e un centinaio di casi. Secondo questi dati, laddove in tutti gli altri paesi il tasso di mortalità sembra essere del 2 per cento, l’Iran avrebbe un tasso sette volte più elevato. È inverosimile, e a questo punto i casi sono due: o il numero di casi è volutamente minimizzato o le capacità di analisi sono limitate e il governo non conosce la portata dell’epidemia sul suo territorio”. Prosegue Haski: “La negazione della realtà si manifesta in modo particolare nella città santa sciita di Qom, situata 150 chilometri a sudovest di Teheran ed epicentro dell’epidemia nel paese. La città, con una popolazione di un milione di abitanti, accoglie venti milioni di visitatori all’anno, e le autorità religiose si sono rifiutate di rinunciare alle grandi preghiere collettive”.

Oltre che nello stesso Iran, la mancanza di controllo è un problema per i paesi confinanti: “È il caso di Kirkuk, nel nord dell’Iraq, dove i primi quattro casi di contagio sono quelli di una famiglia di ritorno dall’Iran, ma anche il Bahrein, la Turchia e l’Afghanistan”.

Conclude Haski: “L’epidemia ha un enorme potenziale di destabilizzazione ovunque si diffonda, come dimostrano l’esplosione di rabbia in Cina dopo la morte del medico che aveva lanciato l’allarme o gli accenni di rivolta in Ucraina. Figuriamoci in regioni complesse come l’Iran, dove il virus sembra aver definitamente sancito l’isolamento del paese”.

 

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