Diritto penale e fattore religioso nelle società multiculturali. Intervista al prof. Fronzoni

Il prof. Vasco Fronzoni, è Professore straordinario di Diritto musulmano e dei Paesi islamici presso Università telematica Pegaso, l’Università L’Orientale a  Napoli e l’Università Ca’ Foscari a Venezia

Intervistiamo il professore su un argomento che in questi tempi sta suscitando interesse:    “Diritto penale e fattore religioso nelle società multiculturali. Quali criticità?”

D: Prof. Fronzoni, alcune recenti notizie di cronaca (i media riportano che a Ferrara un genitore musulmano di origine marocchina ha segregato la figlia perché voleva vivere “all’occidentale”) fanno porre nuovamente l’accento sul dato culturale che influenza comportamenti che possono risultare illeciti. Può aiutarci a comprendere meglio qual è il rapporto tra diritto penale e fattore religioso?

R: La globalizzazione, i flussi migratori e lo sviluppo del web nella sua dimensione planetaria sono certamente i fattori che hanno generato una dimensione multicultural-confessionale delle nostre società. Tale fenomeno, relativamente nuovo, sconta la mancanza di regolamentazione o, talvolta, di regole condivise sul piano penale, in riferimento ad alcuni stili di vita propri di religioni e culture diverse rispetto a quella dominante ovvero ospitante. Ciò può provocare criticità, dovute all’incertezza ed alle discriminazioni sul piano giuridico.

Negli assetti delle società occidentali impera, più o meno trasversalmente, una organizzazione statale e delle istituzioni giuridiche improntata alla laicità e tale assetto ha comportato, nel corso del tempo, una perdita di centralità del fattore religioso sul piano comunitario, venendo esso svilito di quel ruolo regolatore quantomeno dell’etica comune che storicamente deteneva, e progressivamente confinato nella dimensione del foro interno. A questo andamento non si è sottratto l’ordinamento italiano, che tuttavia ha conservato un “confessionismo strisciante”, che può involontariamente appesantire, se non aggravare, tali criticità.

Difatti, nel nuovo assetto plurale delle società occidentali possono emergere problematiche giuridiche nuove, essenzialmente collegate alle differenze tra stili di vita talvolta ritenuti doverosi dai “nuovi cittadini” e il modello comunitario della società ospitante. Ed è proprio sotto questa specifica lente che vanno analizzati e giudicati quei comportamenti indotti dal contesto di origine e che hanno un’influenza esterna e potenzialmente collidente rispetto all’ordinamento giuridico in cui si manifestano. Difatti, può accadere che le differenze di retaggio e le abitudini dissonanti, spesso assunte sulla base di modelli suggeriti più che per scelta o inclinazione personale, possono sfociare sul piano oggettivo in condotte penalmente rilevanti.

Ecco che si è ulteriormente sviluppato il ragionamento su diritto penale e fattore religioso, che deve essere arricchito da un approccio inclusivo ed aperto alla comprensione di quei meccanismi impositivi che guidano il modo di agire dei soggetti “sospesi” tra più culture o modelli.

Nel corso del tempo, tali condotte sono state sussunte nella categoria dei reati culturalmente motivati, iscrivendole talvolta nella categoria delle esimenti, talaltra in quella della scriminanti, passando alternativamente dal campo delle defences a quello delle offences.

D: Ma nel concreto quali sono queste motivazioni che condizionano i comportamenti umani e come risponde l’ordinamento giuridico?

R: Probabilmente per semplificare la riflessione in un campo di non immediata comprensione, non sempre la dottrina mette in luce con la dovuta attenzione la differenza genetica di tali condotte, quando assunte sul piano culturale ovvero su quello confessionale. Va invece chiarito che la motivazione culturale, in quanto proveniente dal basso ed in linea con modelli comportamentali diffusi nella società di riferimento, sembrerebbe consentire nel soggetto un margine di apprezzamento maggiore sulle scelte comportamentali, laddove un convincimento religioso, calato quindi dall’alto, apparrebbe limitare le scelte di soggetti cresciuti all’ombra di quelle regole tipiche dei sistemi giuridico-religiosi rivelati.

Un esempio delle concrete ricadute di tale distinzione può essere fornito da alcune pratiche da un lato culturali e dall’altro religiose sui minori. Nel caso delle mutilazioni genitali femminili, pratica non imposta dall’appartenenza confessionale ma causata dalla dimensione culturale di condizionamenti di tipo sociale, chi ha la responsabilità su una minore, quantomeno sul piano teorico potrebbe anche scegliere di non uniformarsi, soprattutto allorquando sa di violare una legge. Di contro, quando è la convinzione religiosa ad imporre certi riti ed i modelli comportamentali conseguenti, come nel caso della circoncisione rituale maschile, è difficile immaginare che il credente possa sottrarsi al volere divino, e ciò anche se consapevole che tale condotta risulti illegittima nell’ordinamento giuridico in cui dimora.

Dunque, spingendo l’analisi più in profondità, tale differenziazione potrebbe tendere a condannare le condotte motivate dal piano culturale e giustificare quelle ispirate dalla dimensione confessionale.

In ogni caso, va notato come la novità dell’ambito e l’assenza di un preciso paradigma teorico di riferimento, unitamente alla possibile mancata conoscenza da parte dei legislatori e delle corti della percepita obbligatorietà delle condotte in capo all’agente stante i condizionamenti religiosi e/o culturali, può comportare la compressione del diritto di libertà religiosa e può sfociare anche in palesi pronunce discriminatorie oltre che antinomiche.

D: E questo accade anche in Italia?

R: Si. Nell’orizzonte italiano, questo è il caso della sopra citata circoncisione rituale maschile, materia non disciplinata a livello normativo e dove la principale fonte regolatrice resta dunque la giurisprudenza. L’ambito giudiziario, difatti, lungi dal doversi sostituire al potere legislativo, si pronuncia su casi di specie e non nell’ambito di un quadro unitario, con la conseguenza di produrre pronunce contrastanti a seconda dell’organo giudicante investito. Negli ultimi 20 anni in Italia le decisioni giurisprudenziali sulla pratica circoncisoria motivata da un fattore religioso e non terapeutico, di sono state le più varie:

– liceità dell’intervento rituale, purché ben eseguito anche da non abilitato alla professione sanitaria ed anche se praticato in casa;

– stigmatizzazione dell’intervento rituale fatto passare per terapeutico con prestazione a carico del servizio sanitario nazionale;

– liceità dell’intervento eseguito dal non abilitato alla professione sanitaria, anche se in casa, purché praticato con particolari precauzioni dal punto di vista sanitario;

– atto medico, eseguibile soltanto da personale abilitato alla professione sanitaria;

– illiceità dell’intervento praticato in ambulatorio medico da chi risulta abilitato alla professione sanitaria ma non specializzato in chirurgia;

– circoncisione non terapeutica sempre produttiva di una malattia lesiva del corpo;

– applicabilità della scriminante del consenso dell’avente diritto;

– intervento scriminabile se eseguito in sede di scelta nella educazione religiosa della prole;

– valorizzazione processuale della motivazione religiosa;

– reprimenda per la falsificazione di cartella clinica finalizzata ad inquadrare l’atto non terapeutico come terapeutico;

– liceità dell’atto eseguito dal non abilitato alla professione sanitaria se coperto da norma pattizia.

Quest’ultimo punto viene sviluppato nella sentenza della Corte di Cassazione n. 43646/2011, che cristallizza il diritto di residenti o cittadini alla circoncisione rituale se coperti da intesa ex art. 8 Cost. ed anche qualora l’intervento sia eseguito dal non esercente la professione sanitaria. Ciò vuol dire che, in modo discriminatorio, non sarà legittimato l’intervento fatto praticare da cittadini o residenti appartenenti ad una confessione priva di intesa. In questa pronuncia spero di immaginare un monito fatto dalla Cassazione al legislatore per svegliarsi da un’assenza inscusabile.

Va anche detto che in altre circostanze la giurisprudenza si è dimostrata più sensibile all’esigenza confessionale, anche in una dimensione internazionale, come nel caso del riconoscimento dell’istituto di diritto islamico della kafala, vale a dire l’affido di minore in una situazione di difficoltà che però, a differenza di quanto avviene con l’adozione, non entra giuridicamente nella nuova famiglia ma rimane incardinato in quella biologica. Difatti, dal 2008 in poi la Corte di Cassazione, in nome del best interest del minore ed anche dei suoi diritti religiosi, ha superato l’inconciliabilità tra sistema adottivo dei minori in stato di abbandono o non accompagnati imperante in occidente e divieto di adozione proprio del diritto islamico, pervenendo ad una soluzione “creativa” con la quale ha, a più riprese, riconosciuto alle sentenze straniere di affido (appunto kafala) analoga valenza del sistema adottivo, consentendo così ai minori in kafala di ricongiungersi alle famiglie rientrate in Italia.

Per tornare alla cronaca, è solo di pochi giorno fa la notizia (6/12/2021) la notizia di un genitore musulmano di origine marocchina che a Ferrara è stato denunciato dalla figlia, maggiorenne, per maltrattamenti, minacce e sequestro di persona in concorso in quanto si opponeva allo stile di vita troppo alla occidentale” condotto dalla figlia. Al di là dei valori inculcati nella educazione dei figli minori, difficilmente potrà essere giustificato da un retaggio religioso il comportamento di un genitore che impone con minaccia e violenza ad un figlio maggiorenne lo stile di vita da assumere, poiché l’islam non legittima né consente comportamenti del genere.

Diversamente, è sempre recente (19/11/2021 – 30/11/2021) la notizia della richiesta di archiviazione di un PM della Procura della Repubblica di Perugia rispetto ad una denuncia per maltrattamenti in famiglia presentata da una moglie di fede musulmana nei confronti del marito. Il provvedimento, a quanto si legge sui giornali, originariamente motivato tra l’altro dal fatto che “La condotta di costringerla a tenere il velo integrale, pur non condivisibile in ottica occidentale, rientra nel quadro culturale dei soggetti interessati (…): il rapporto di coppia viene caratterizzato da forti influenze religiose-culturali alle quali la donna non sembra avere la forza o la volontà di sottrarsi” è stato poi ritenuto meritevole di ulteriori approfondimenti istruttorii da parte del Procuratore capo. In quest’ultimo caso ed in un primo momento, il fattore scriminante della motivazione culturale sembra venga condiviso dalla magistratura inquirente, anche se operante in danno di una donna che lamenta vessazioni.

Dunque, in Italia il rapporto tra fattore religioso e diritto penale mostra certamente una concreta e tangibile interessenza, regolata tuttavia essenzialmente dalla giurisprudenza, e la conseguente alternanza di pronunce dovrebbe indurre il legislatore ad uscire dall’inerzia e regolamentare un ambito così sensibile e, per certi versi, anche strategico.

Ringraziammo il professor Fronzoni per la competenza e la conoscenza che ci ha lasciato.

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